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Immigrazione e integrazione, processo lento

31/05/2007

Il dibattito su immigrazione e integrazione - specie in Italia – ha troppo a lungo oscillato tra un buonismo multiculturale che si eccita per i ristorantini al couscous ed una intolleranza...

L’analisi di Alberto Bisin, economista italiano da 15 anni negli States.

Il dibattito su immigrazione e integrazione - specie in Italia – ha troppo a lungo oscillato tra un buonismo multiculturale che si eccita per i ristorantini al couscous ed una intolleranza, con derive di vero e proprio razzismo, che grida al rischio dell’Eurabia e dunque della cannibalizzazione di matrice musulmana. Ecco, di questo “non” si è occupato Alberto Bisin, protagonista dell’incontro su immigrazione ed integrazione. Milanese di nascita, da oltre quindici anni negli Stati Uniti, Bisin è docente alla New York University, ha insegnato al MIT di Boston e in molte altre università. La sua attività di ricerca spazia dalla finanza teorica alla sociologia economica, alla teoria comportamentale delle decisioni. Da qui è partito per la sua relazione: “L’economista guarda i dati”. Al suo fianco Tiziano Marson, direttore dei tre quotidiani del Gruppo Espresso, “Alto Adige”, “Trentino” e “Corriere delle Alpi”. La nostra convivenza con questi problemi – che possono e debbono diventare opportunità - è ormai quotidiana, ha detto Marson, e per questo “è da sfruttare l’occasione del confronto con un esperto globale, per una volta lontani dagli schematismi della politica”. E Bisin proprio questo ha fatto: ha presentato dati, cifre, tendenze, prima di accettare – incalzato ancora da Marson e poi dalle numerose domande del pubblico – un serrato contraddittorio finale. Un primo dato: gli immigrati sono oggi il dieci per cento negli Stati Uniti, mentre in Europa sono su queste percentuali solo alcuni Paesi dell’Est come Estonia e Lettonia. Germania e Polonia sono sul 5 per cento: “Ma la tendenza è chiara: territori con economie dinamiche sono fortemente attrattivi”. “Attenzione – ha detto Bisin – non dobbiamo credere che sia sempre giusto favorire politiche di integrazione, per così dire, forzate. Ci vuole molto tempo perché le situazioni nuove si sedimentino e non è detto, dati alla mano, che l’affermazione di una forte identità culturale, anche in forme che potrebbero sembrare quasi di segregazione o comunque di separazione, abbia sempre risvolti negativi”. Quanto sono rapidi i processi di assimilazione culturale e religiosa degli immigrati in Europa? Che cosa facilita od ostacola l'integrazione? Quanto e come conta la segregazione abitativa e sul mercato del lavoro? E i musulmani, in particolare, seguono davvero processi di assimilazione diversi qualitativamente e quantitativamente? A queste domande ha cercato di rispondere l’economista. Che con la sua cadenza ormai sempre meno italiana e sempre più americana ha strappato anche una risata quando – rimarcando lo stato disastroso della ricerca in Italia, la nulla attrattività delle nostre università nei confronti degli stranieri (e anche questo ha a che fare con l’immigrazione) e la fuga dei cervelli – ha scherzato sulla sua vicenda personale: “Forse non sono un cervello, ma comunque me ne sono andato anch’io”. E’ stata amara su questo l’analisi dell’economista: in una Europa dove lo scambio culturale ed economico è continuo, l’Italia registra una desolante situazione: “nessun influsso di capitale umano”. Un dato su tutti: nelle università americane arriva il 26 per cento di studenti dall’estero; in Gran Bretagna siamo al 35, in Spagna all’11, in Italia al 2 per cento. Quali dunque gli effetti dell’immigrazione? Bisin li ha ricordati: economici (salari, prezzi, offerta di servizi), sociali (integrazione, multiculturalismo) e politici (accesso al welfare, tasse, previdenza sociale, preferenze di voto future). Analizzando tanto gli esperimenti storici dei rientri forzati (dai pieds noirs dall’Algeria alla Francia agli ebrei russi verso Israele) quanto i dati statunitensi tra il 1990 e il 2000, Bisin ha dimostrato che l’effetto dell’immigrazione sui salari è assai contenuto e diventa persino positivo per i nativi del paese ricevente con istruzione superiore. “Dobbiamo dire – aggiunge – che gli immigrati messicani che oggi cercano fortuna negli States non si trovano a competere con gli americani, ma con gli immigrati messicani di dieci anni fa”. Interessante poi l’analisi degli effetti sociali. I tratti etnico – culturali e ancora più quelli religiosi rivestono particolare importanza nelle comunità di immigrati. Bisin ha studiato in particolare la realtà inglese. Un dato significativo: in Gran Bretagna gli immigrati musulmani di prima generazione hanno un tasso medio di omogamia (matrimonio all’interno della comunità) dell’89 per cento che scende appena all’84 nella seconda generazione. Per i non musulmani si passa invece dal 75 per cento della prima generazione al 65 della seconda. Anche a partire da questi dati Bisin conclude che “l’integrazione è un processo molto lento, dove i tratti culturali ed etnici, specie quelli religiosi, sono molto persistenti. Al punto che si può tranquillamente affermare che il tasso di omogamia degli immigrati in Gran Bretagna negli anni Novanta non è dissimile da quello negli Stati Uniti all’inizio del Novecento”. Ancora: “La segregazione abitativa non genera forti identità religiose per sé e dove questa identità è particolarmente forte, il riferimento è alle popolazioni musulmane, “è comunque indipendente dal tempo speso in Gran Bretagna. Non solo: la maggiore identità culturale e religiosa si registra tra gli immigrati arrivati in giovane età, tra le donne, tra chi ha reddito familiare maggiore, tra chi è occupato, tra chi ricopre posizioni manageriali, tra chi vive in un quartiere con bassa disoccupazione”.

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Pubblicato il: Giovedì, 30 Agosto 2007 - Ultima modifica: Mercoledì, 27 Giugno 2018

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