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Il commento di R. Masiero al film Gridami di R. Mohebi

17/09/2010

"Un film che viaggia su toni alti rappresentando una via narrativa imprevedibile di toccante denuncia esistenziale"

di Roberto Masiero
Dopo la proiezione dell’opera Gridami (11 settembre 2010 al Film Festival di Venezia - Premio città di Venezia ndr.), il nuovo film del regista Razi Mohebi, per una strana associazione di idee mi si sono ripresentati in mente alcuni concetti che il grande Italo Calvino ha fissato in quelle sue prodigiose Lezioni Americane, a proposito dell’abuso delle parole inutili e della necessità di esattezza. Quando egli chiama a rapporto implicitamente, per analogia artistica, anche il mondo del cinema: “viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato…Gran parte di questa nuvola di immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione di estraneità e di disagio.”
Io non saprei dire come il giovane regista Razi Mohebi abbia avvertito il monito severo a ricercare l’essenza del linguaggio: forse per accurato studio accademico, o sarei portato piuttosto a pensare a qualche strana congiunzione astrale ricercata d’istinto e dunque di ispirazione. Certo è che questo bel film potrebbe essere l’esemplificazione di un fare arte con perizia da miniaturista, da calligrafo, con l’attenzione a che qualsiasi gesto, anche il minimo e impercettibile, sulla scena abbia il suo posto ed una motivazione profonda, qualsiasi inquadratura sia funzionale, qualsiasi tono o sfumatura di colore e qualsiasi battuta siano strumenti controllati in modo matematico, così come si scrive una partitura musicale.
Si potrebbe obiettare che ogni regista finalizza le riprese e la sceneggiatura, ma qui siamo di fronte al simbolismo e al metodo più ricercato.
L’autore ci racconta una storia semplice: la banale tragedia di una coppia di immigrati che scoppia in un mondo degradato, occidentale, di apartheid sottintesa, che proclama libertà interiorizzate con la sua filosofia e non sa garantire neppure un lavoro ed un tetto. Questa stessa mia estrema sintesi è banale, così come avviene quando si racconta di un viaggio, dicendo scarnamente il nome della città da dove si è partiti, quanti chilometri è durato il percorso, dove ci si è fermati a mangiare e punto. Questa non è arte, l’arte si appropria di contenuti di vaghezza, esprimendo sentimenti struggenti, frustando la banalità fino al punto di cavarne sangue e scoprire che dalla materia stupida sprizza una vitalità dolorosa e poetica.
Razi Mohebi contrappone una saturnina mestizia ed una vicenda esistenziale profondamente buia alla bellezza di una fotografia potente e carica di suggestione, ai colori saturi e solari, per la gioia degli occhi. Lei, la protagonista, è una donna compressa che ha bisogno di far esplodere la propria energia interiore, il calore passionale della propria femminilità anche carnale, che si sdoppia nella controversa personalità. Lui è un pover’uomo con poco nervo, predestinato alla solitudine: un giovane che ha scelto, malgrado tutto, la strada della responsabilità, della paternità responsabile e conduce una vita in bilico tra la sopravvivenza macilenta e l’urgenza artistica che lo spinge inesorabilmente alla ricerca di una armonia universale; si dà da fare per sbarcare il lunario come può, si accontenta di un lavoro qualsiasi se e quando lo trova. Ma in un’altra dimensione, e nei suoi dipinti si spande l’emblema della rotazione, entra in essi il significato illimitato del cosmo. Egli stesso, talvolta travolto dal potere anestetico di una danza mistica, quasi come un derviscio in trance, si lascia girare su se stesso. Intorno alle braccia allargate si muovono gli astri, per un momento pare raggiungere l’infinito, quasi riesce a sollevarsi: ma è una vana illusione. Il suo ruotare è sbilanciato e come un povero ballerino, come un orso svuotato di forza, lui precipita a terra inerte e il mondo lo schiaccia con la propria forza di gravità. A questa gente è negato, con la negazione del diritto al lavoro, anche il diritto alla propria dignità, alla propria autostima. Questa è la lacerazione più profonda. Intorno a questa umanità di contorno, insignificante, c’è un mondo borghese formalmente educato: solo un cane ha la pietà di offrire ad essa almeno un segno di attenzione, una furtiva leccata, mentre il padrone della bestiola, impassibile e per questo scandaloso, non nutre alcuna compassione per altri esseri della propria specie. Immigrati, persone: anime che hanno rinunciato al proprio anelito a distinguersi, come la donna con il cappotto rosso che chiude gli spartiti della musica nelle povere valigie, così come a sigillare i propri sogni irrealizzati, li avvolge con le catene e trascina per le stanze il peso gravoso di ricordi che malgrado tutto assillano per lunga astinenza di buone nuove e vuoto di prospettive. Il film sembra divagare in immagini parallele, sequenze simboliche e surreali, ma è forte il filo conduttore che il regista conduce impietoso al centro della disperazione. Ogni oggetto parla un linguaggio muto e carico di allusioni: il melograno, frutto sacro dai mille e mille significati che riportano alla fertilità, verrà distrutto dalle mani della donna, cosicché emblematicamente essa distrugge se stessa. Lo specchio ove la realtà si confonde nel gesto vano di oltrepassarlo. E la potente visione del nido abbattuto dal taglialegna, con pratica urgenza, senza rispetto per gli uccelli: così l’uomo distrugge il simbolo protettivo per eccellenza della casa e della famiglia. E la condivisione del vino, scena gioiosa e rito ecclesiastico di fratellanza eucaristica, destinata ai popoli dei quattro continenti, si chiude con il fallimento dell’anelito a comprendere tutto il mondo. Infine un’immagine sardonica: è quella di una danzatrice in burqa, in discoteca, che si libera del proprio assurdo fardello. In tanta cupezza non riesce a far ridere completamente nemmeno la scoperta che sotto la tela blu si cela il corpo di un uomo, il protagonista: egli ci appare comunque schiavo e misera trottola nella vita, anche liberato di quel simbolo costrittivo solo esteriore.
I dialoghi sono scarni, la recitazione è cadenzata, a volte aulica e con chiara intenzione di una ricercatezza poetica che a volte appare persino eccessiva, nei personaggi maschili, ove sarebbe preferibile forse una maggiore naturalezza.
Ma in questo film che lascia infine lo spettatore pensoso e pieno di inquietudine, si ritrova la caratteristica espressiva e lo stile marcato, così come si può riconoscere nella firma di autentiche personalità della regia. Si apprezza la sapienza di un cinema che dall’Asia introduce nuova linfa espressiva, sotto la guida personalissima di Razi Mohebi che si avvale del confronto positivo con la sensibilità della coautrice, la sig.a Soheila.
Questo film non facile, per le sottili implicazioni e i rimandi, merita una particolare attenzione ed un plauso al coraggio. Sorprende per l’originalità nel modo di rappresentare la realtà del precariato e dell’immigrazione: viaggia su toni alti e che sfuggono ad un ritrito neorealismo, rappresentando una via narrativa imprevedibile di toccante denuncia esistenziale.

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Pubblicato il: Venerdì, 17 Settembre 2010 - Ultima modifica: Mercoledì, 27 Giugno 2018

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