15/09/2009
"Prodigioso come possa un film, commissionato a tema dalla Provincia di autonoma Trento sulla difficoltà di trovare alloggi per i migranti, venir trasformato in una elegia mesta sulla condizione di solitudine ..."Reame del nulla, il giudizio di roberto masiero
Roberto Masiero è uno scrittore e poeta veneto. Ultimo suo romanzo è "Mistero animato" (Mobydick editore di Faenza, 2009). Roberto Masiero è stato sollecitato da Michele Serra (critico cinematografico) a dare un suo giudizio sul mediometraggio "Reame del Nulla" di Razi Mohebi, prodotto dal Cinformi della Provincia autonoma di Trento. " Prodigioso come possa un film, commissionato a tema dalla Provincia di autonoma Trento sulla difficoltà di trovare alloggi per i migranti, venir trasformato in una elegia mesta sulla condizione di solitudine che affligge l’umanità. Attraverso un simbolismo estremamente efficace questo film riesce a trasferire una sensazione di gelo e di rigetto per un mondo profondamente sbagliato. E ancora - Un film di qualità, a volte un po’ ingenuo, soprattutto nei dialoghi, che comunque blocca lo spettatore e lo lascia disgustato della vita, per come viene sprecata o svilita. Dunque una interpretazione della condizione umana degli ultimi: i migranti, uomini degradati dalle convenzioni sociali al rango di razza inferiore, non trovano mai riscatto alla propria dignità, se non attraverso la speranza che li accomuna agli altri uomini, anche i ricchi, nella compassione per una solitudine esistenziale."
di Roberto Masiero Prodigioso come possa un film, commissionato a tema dalla Provincia di autonoma Trento sulla difficoltà di trovare alloggi per i migranti, venir trasformato in una elegia mesta sulla condizione di solitudine che affligge l’umanità. Attraverso un simbolismo estremamente efficace (solo in poche occasioni anche troppo didascalico) questo film riesce a trasferire una sensazione di gelo e di rigetto per un mondo profondamente sbagliato. Il personaggio dell’uomo ricco, chiuso ossessivamente nel suo castello (edificio che simboleggia la difesa da un mondo esterno intriso di nemici) prova continuamente ad interpretare il mondo: in un modo assolutamente sterile e filtrato dai libri o dai giornali. Talvolta gli pervengono dei rumori da fuori, di vita vera, ma li avverte quasi come disturbi e si affanna inutilmente, anche cercando di fare chiaro con la sua lucerna, a rintracciare la provenienza di quelle voci: vive la sua estrema solitudine dorata, interrompendola solo brevemente per ricercare un contatto umano, ma è ancora mercificato dall’accompagnarsi con una prostituta, in un rapporto distaccato. Fuori dal castello altre solitudini: il protagonista, creatura sensibile e disperata, senza casa, si rifugia in una fabbrica abbandonata, in pieno degrado, dove incontra altra umanità sofferente, ma vera: un malato di mente che si aggrappa alla falsa sicurezza di un manichino ( rappresenta la sicurezza che potrebbe dare un padre perduto chissà dove chissà quando), poi un artista senza più famiglia, condannato spropositatamente per aver rubato una confezione di profumo (altro simbolo dell’effimero di una società capricciosa e opulenta),per affrancarsi dall’indigenza. Altre figure baluginano nell’oscurità. Tra questi derelitti si stabilisce un contatto comunque affliggente: si scambiano una sigaretta attraverso una grata (simbolo di prigionia), oppure ancora: il dono pietoso di un’altra sigaretta cade dalle labbra di un uomo disperato, mentre si schiudono in una smorfia di pianto incontenibile. Il protagonista si affaccia timidamente alla vetrina di un’agenzia immobiliare, ma viene respinto con durezza e gli viene ributtata in faccia come una colpa la condizione di povero. Sulla vecchia fabbrica talvolta volano aerei e il protagonista mima un sogno di libertà, agitando le braccia come un uccello. I dialoghi sono scarni, più spesso è la voce narrante del protagonista, in modo lirico, ad evocare la sofferenza: di passione si tratta e il protagonista ha le sembianze di un Cristo moderno umiliato che si trascina in un inferno reale. Emblematica la conclusione: il ricco trova insopportabile la propria solitudine, si lava in una sorta di doccia rigenerante. Ora è predisposto a divenire un uomo diverso. In una soffitta trova uno strumento musicale a corda, ma non sa ottenere che qualche suono senza senso. Nemmeno la musica si può fare, se si è così soli interiormente. Esce nel cortile, a passi incerti si dirige verso la fabbrica abbandonata: sul piazzale l’accoglie, immobile, quella schiera di derelitti. Si unisce a loro e tutti insieme guardano al cielo di una possibile speranza. Comunque si rivela magicamente l’unione di anime in pena, accomunate dallo stesso bisogno di solidarietà, che supera le barriere artificiali del censo. Dunque una interpretazione della condizione umana degli ultimi: i migranti, uomini degradati dalle convenzioni sociali al rango di razza inferiore, non trovano mai riscatto alla propria dignità, se non attraverso la speranza che li accomuna agli altri uomini, anche i ricchi, nella compassione per una solitudine esistenziale. Il film si avvale di una potente scelta scenografica dove la fotografia gioca un ruolo espressivo insostituibile: la ricerca della luce come vera colonna sonora a marcare gli stati d’animo (potenti chiaroscuri delineano l’inferno della fabbrica) luci artificiali per illuminare il mondo del castello (vuoto di senso), nebbia che allontana i migranti dalla felicità magari un po’ stupida dei cittadini giocatori al bar. Ottime le riprese dei piedi che ballano (unico tono di vitalità la donna di colore) o dei tanti particolari che segnano i diversi passaggi. Passionale l’interpretazione, fatta di gesti più che di parole, del protagonista. Un po’ scontato e inutilmente brusco il parlato al momento iniziale dello sfratto e nel contatto con l’uomo dell’agenzia immobiliare ( la reazione appare artificiosa per come è eccessivamente caricata). Il film lascia una sensazione molto algida e infine sconfortante: nessuna concessione ad un possibile futuro rosa, ma una immersione continua e reiterata, ossessiva nel problema di vivere, e di vivere in una condizione malsana. Al massimo si accende una larvata possibilità di speranza in un sogno lontano di volare. Buona anche l’interpretazione del matto, molto credibile. Certo si tratta di un film che non può accendere l’entusiasmo del grosso pubblico, abituato a meritarsi, anche nella rappresentazione del dolore, scene di gesti plateali o comunque spettacolari, per gratificare il proprio bisogno di evasione: qui si entra in un imbuto da cui si esce stritolati. Un film di qualità, a volte un po’ ingenuo, soprattutto nei dialoghi, che comunque blocca lo spettatore e lo lascia disgustato della vita, per come viene sprecata o svilita.