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“Le strade dell'integrazione”

25/06/2012

Secondo il CIR deve essere superato l’approccio per cui si affronta l’accoglienza sotto forma di emergenza

Analizzare l’impatto che i percorsi di accoglienza e i servizi per l’integrazione hanno sulle capacità, sulle opportunità e le realtà di autonomia, di inserimento socio-economico e di integrazione di un target di persone in protezione internazionale, presenti in Italia da almeno 3 anni. Era questo l'obiettivo della ricerca “Le Strade dell’Integrazione” finanziata dal ministero dell’Interno nell’ambito del Fondo europeo per i rifugiati. Il progetto è stato realizzato dal Consiglio italiano per i rifugiati, dal Dipartimento di scienze sociali della Sapienza, dall’associazione comitato per il centro sociale (Caserta) e dall’associazione Xenia (Bologna).
Nello studio, che si è sviluppato su 7 territori (Torino, Bologna, Roma, Caserta, Lecce, Badolato e Catania), si sono raccolti 222 questionari rivolti a rifugiati e titolari di protezione sussidiaria; 59 interviste in profondità a titolari di protezione internazionale e 33 interviste a operatori del settore che, a vario livello, lavorano nel settore dell’accoglienza e dell’integrazione. Si sono inoltre realizzati 7 focus group in cui si sono messi a confronto i titolari di protezione internazionale e gli operatori che hanno dialogato sui temi dell’accoglienza e dell’integrazione.

Il lavoro
Dall’analisi quantitativa, i cui dati trovano un riscontro anche nelle storie raccolte attraverso le interviste qualitative, emerge che per quanto riguarda il lavoro il 44,6% degli intervistati è disoccupato, il 4% non risponde, e solo il 51,4 % risponde che ha un’occupazione. Altro dato indicativo è che le occupazioni sono molto spesso non in linea con quella che è la pregressa esperienza personale dei rifugiati: tra i 18 laureati che hanno risposto al questionario, c’è chi fa il bracciante agricolo, chi il custode, chi distribuisce giornali, chi è muratore alcuni fanno anche gli interpreti o i mediatori. Solo uno ha un’attività in linea con la sua professione, il pediatra. Al di là del titolo di studio, il 17% è operaio non specializzato e un altro 40% del campione lavora nel settore delle pulizie, dell’assistenza domestica, dell’agricoltura, della ristorazione o del commercio. Il 75% si dice soddisfatto del lavoro che svolge, ma con motivazioni che fanno riflettere: “perché mi consente di vivere” (27%), “perché non c’è altro” (18%), “perché mi permette di mantenere la famiglia” (16%), “perché mi permette una vita dignitosa” (9%). Il 22% degli intervistati lavora in nero.

La casa
Per quanto riguarda la condizione alloggiativa, il 26% condivide casa con degli amici, il 22% con altre persone, solo il 10% vive da solo e il 21.5% con il proprio nucleo familiare. Il 18% in altre condizioni: occupazioni, presso il datore di lavoro, in centri di accoglienza. Una percentuale rilevante di rifugiati, sebbene in Italia da più di 3 anni, non ha una situazione abitativa autonoma e dignitosa. Pochi quelli che sono soddisfatti della loro condizione: ben il 50% non risponde o non è soddisfatto della propria condizione abitativa.

Nelle interviste qualitative in molti, sia tra gli operatori che tra i rifugiati, lamentano l’assenza di un programma coordinato, l’accesso a diritti certi e servizi omogenei.
Secondo il CIR serve “una svolta nel Paese: deve essere superato l’approccio per cui si affronta l’accoglienza sotto forma di emergenza e l’integrazione sotto forma di progetti. I progetti – prosegue il CIR – sono utili per lo sviluppo di modelli e metodologie, per sperimentare l’innovazione, per affrontare e approfondire problematiche specifiche e per condurre studi, ma non possono e non devono sostituire programmi permanenti. Dobbiamo introdurre un programma nazionale per l’integrazione anche in chiave di efficienza economica.”

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Pubblicato il: Lunedì, 25 Giugno 2012 - Ultima modifica: Mercoledì, 27 Giugno 2018

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